04/10/2023

INTERVISTA A GUILLERMO ARRIAGA

Guillermo Arriaga è uno dei cineasti messicani più assidui della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Ha partecipato in vesti diverse e tutte le volte, ha viaggiato sempre a fianco o con il sostegno della sua famiglia. In questa 80ª edizione, si è presentato come sceneggiatore e produttore di un film diretto dai figli, Mariana e Santiago.
“A cielo abierto” è la sua prima opera scritta per il cinema, fatta con una macchina da scrivere proprio negli anni ‘90, e l'originale è stato trovato recentemente dai suoi figli tra alcuni scaffali e delle carte, i diritti erano stati venduti, ma per loro era il momento di fare una produzione.  
La storia è diventata il primo lungometraggio dei fratelli Arriaga, dopo una lunga esperienza in progetti pubblicitari e tante frequentazioni in diversi festival internazionali. Il film “A cielo abierto” è stato in concorso in Orizzonti, una delle sezioni dedicate ai lavori rappresentativi di nuove tendenze estetiche ed espressive del cinema mondiale. 
 
BER.-La prima domanda che vorrei rivolgerle è che rappresenta per Lei essere qui a Venezia con i suoi figli e diciamo con un'opera fatta a 6 mani o con 3 menti creative?
GA.- Desidero cominciare dicendo che per me, il Festival di Venezia è speciale. Alberto Barbera e tutto il suo staff mi hanno sempre fatto sentire a casa. Alberto è come l’epitome della cavalleria.
Riguardo i miei figli, Mariana e Santiago, loro vengono a Venezia da quando erano molto giovani. Mi hanno accompagnato quando presentai "The Burning Plain" (Il confine della solitudine), quando ho fatto parte della giuria, quando abbiamo accompagnato Mariana con il cortometraggio "En defensa propia", e siamo stati anche qui con il film “Desde allá”. Loro sono cresciuti praticamente con il Festival, hanno un profondo amore per il festival. Il fatto che abbiano aperto una vetrina di questa dimensione alla famiglia Arriaga non può che produrre un’immensa gratitudine.   
Vorrei dire che non siamo solo tre menti creative, siamo tante menti creative. Devo riconoscere il lavoro dei colleghi produttori, sono stati incredibili, ci hanno anche sostenuto nella realizzazione del film e nella cura di alcuni dettagli. C’è Julián Apezteguía della fotografia; Carlos Jacques, direttore della produzione; José Villarreal, assistente alla regia; Andrés Pepe Estrada, al montaggio; Ludovico Einaudi, nella musica, e ovviamente, il fantastico cast.

BER.- Questo non è il suo primo lavoro a cielo aperto. In "Babel", "Le tre sepolture" e "The Burning Plain", si possono apprezzare ampi spazi, tutti scoperti. Perché questa predilezione? La vita o le storie riescono a vedersi meglio così?
GA.- Questa è stata la prima cosa che ho scritto in vita mia. Fu la mia prima opera scritta per il cinema.
Devo dire che ho un profondo amore per il deserto. Io capisco il deserto. Una volta Alfonso Cuarón ha dichiarato che lui girava in spazi verdi; io invece giro nel deserto perché lo capisco.
Gli ampi spazi ai quali sono coinvolto emotivamente sono proprio desertici. Per me, è importante il deserto sia a livello personale che a livello emotivo, dunque questo si è riflesso in molti dei miei film, come hai elencato: “The Burning Plain”, “Le tre sepolture” e “Babel”, incluso anche “21 grammi” perché abbiamo filmato nel deserto di Nuevo León, Messico.
Per me, sì, sono molto importanti gli spazi con i quali mi sento legato emotivamente.

BER.- Compare l’attore de “Le tre sepolture”, Julio César Cedillo, lì era Melquiades Estrada, in questo nuovo lavoro è il camionista che uccide il padre dei ragazzi. Che impatto ha avuto per Lei vederlo di nuovo in scena oppure si potrebbe dire che sia stato l’incontro con un vecchio amico?  
GA.- Julio César è stato Melquiades Estrada e adesso è Lucio Estrada, l’altro fratello. Lucio e Melquiades sono amici miei, contadini di Tamaulipas, Messico; ho una profonda stima per loro. Questa volta, Julio César interpreta Lucio. Credo che Julio César sia un attore straordinario e con cui ho il grande privilegio di poter contare. A dire il vero è una stella, un istrionico completo. Per me, è stato un enorme piacere perché, quando stavamo pensando al cast, Santiago e Mariana hanno detto: “Julio César”, vediamo se accetta il ruolo, ed eccolo qui, ce l’abbiamo. 

BER.-Potrebbe raccontare come inizia a cucire, a confezionare una storia? Come è un giorno creativo nella vita di Guillermo Arriaga? Ha dei rituali?
GA.- Prima avevo molti rituali, ma ora viaggio così tanto che scrivo ovunque. Scrivo a bordo dei taxi, ogni volta che mi reco in un aeroporto, siccome sono lontani gli aeroporti, me la passo scrivendo nei taxi. Se devo spostarmi da un luogo ad un altro, scrivo, o in una caffetteria, o negli alberghi, negli aerei, nei bus, nei treni. Ho imparato a scrivere ovunque.
Poi, quando scrivo qualcosa, ho una vaga nozione di dove andrà a finire, e in realtà, la scopro pian piano mentre sto scrivendo. Non è mai qualcosa che già abbia preconfezionato, o dove già abbia una mappa che mi traccerà il cammino, no, invece prendo, mi avvio e poi vedo come crescerà la storia. Questo è quello che è successo tutte le volte che ho scritto, incluso quando ho scritto “A cielo aperto”. 

BER.- La famiglia. Lei sempre a fianco dei suoi cari. I suoi figli sono sempre stati nei festival, nei set cinematografici.
GA.- Sì, credo che io sia uno di quei pochi cineasti che porti la sua famiglia ovunque. Quando sono stato giurato, ho portato mia moglie e i miei figli, che allora erano piccoli. Li ho portati alle riprese de “Le tre sepolture”, anche a quelle di “21 grammi”, di “Amores perros”, al film che ho diretto, sono stati lì tutto il tempo, pure nei film che ho prodotto. Quindi dà molta soddisfazione che la propria famiglia mi accompagni ovunque, che sia una famiglia unita, senza fessure, dove ci si voglia bene e si abbia cura di noi. 

BER.- Il suo lavoro come sceneggiatore e come scrittore si distingue per come fa incrociare delle storie. Come è arrivato a raggiungere questo stile? Come si è accorto che le piaceva fare questo?
GA.- Dal mio primo libro, l’ho scritto tra i 23 e 28 anni, aveva come titolo “Retorno 21”. Tutte le storie sono state scritte con una struttura diversa, tutte. Ogni racconto ha una struttura diversa. Questo percorso, l’ho scoperto sin da giovanissimo. Ho un deficit di attenzione e questa era la forma in cui io pensavo, e poi, leggendo Juan Rulfo e Faulkner, mi sono accorto che anche loro scrivevano così, e mi sono detto, beh, non sono così sbagliato. 

BER.- Una vita nella dimensione delle lettere. Cosa le è più facile scrivere? Romanzi, sceneggiature? Dove si sente più comodo?
GA.- Io mi sento comodo creando in qualunque delle sfere in cui mi muovo, come cineasta, come scrittore di romanzi, come scrittore di racconti, come produttore, come regista. Creare è un privilegio. Si resta molto esposti però, e possono esserci persone che non sopportino le critiche, ma io per esempio so che ho fatto qualcosa di nuovo nel mondo, una cosa che non esisteva prima e questo risulta essere molto attraente, e per me, tutto ha lo stesso peso, tutto ha un peso uguale.
Amo scrivere perché si comincia da zero. Invece dirigere è come interpretare in qualche modo, quando dirigi sei assieme alle persone, all’aria aperta. Vai da una parte all’altra, e come regista, e come se si giocasse a calcio e si dicesse, voglio giocare con Messi e con Cristiano Ronaldo, tu scegli la gente che vuoi nel progetto. Come regista, ho avuto l’enorme privilegio di lavorare con un cast meraviglioso: Charlize Theron, Kim Basinger, ho avuto anche Jennifer Lawrence; Chema Yazpik che è un grande attore che rispetto molto, Brett Cullen. È stata una grande soddisfazione.

BER.- Qual’è il più grande insegnamento che ha dato ai suoi figli sia come professionista che come genitore?
GA.- Come professionista, che rispettino la gente con cui lavorano, ossia, io ho voluto educare dei figli umanisti. Detesto i registi, perché li ho visti, che maltrattano i loro collaboratori, che gridano, insultano o licenziano, quando invece potrebbero tranquillamente parlare e dire che non vanno bene perché o si ha una lunghezza d’onda diversa o una direzione diversa, e punto.
Quando io dirigo, imparo ognuno dei nomi di tutte le persone che lavorano con me e anche i miei figli hanno imparato i nomi di tutta la gente che lavora con loro, e quando arrivo e quando esco dai set, saluto tutti, a ciascuno, e loro fanno la stessa cosa, e ringraziano a ciascuno per il loro lavoro.
Quello che mi interessa di più è che siano umani. A cosa serve essere dei registi di talento? Se poi sono delle brutte persone.

BER.- E adesso, cosa sta preparando?
GA.- Sto scrivendo il mio prossimo romanzo e stiamo pianificando il loro prossimo film e il mio prossimo film. Già li ho chiesto ad entrambi: Volete essere i miei produttori sì o no? (ride con gioia).
BER.-Grazie per questa conversazione! 
GA.-Grazie a te!

Blanca Estela Rodríguez
giornalista culturale-freelance radio, web, carta stampata e tv.
Ha collaborato con le emittenti del Servizio Pubblico Messicano.
Cura e organizza festival e rassegne cinematografiche. 


(Foto di Corrado Corradi e Blanca Estela Rodriguez)