29/09/2022

THE MAIDEN di Graham Foy

Due ragazzi sfrecciano sui loro skate, come se volessero sorvolare e schivare i problemi, lasciandosi indietro tutto ciò che li circonda, come se questa cornice sociale fosse priva di un senso compiuto, inutile. Così inizia il film, dal titolo The Maiden, del regista canadese Graham Foy, presentato nella rassegna della Giornata degli Autori durante la 79esima Mostra Cinematografica di Venezia.

L’incipit è folgorante e ricorda per analogia Ken Park di Larry Clark. Così come il lungometraggio del regista e fotografo statunitense, il film di Graham Foy narra di ragazzi che cercano il loro posto nel mondo, che vogliono divertirsi e perdersi consapevolmente. L’impatto tra il mondo interiore dei tre protagonisti (Colton, Kyle e Whitney) e l’ambiente attorno è significativo di una incomprensione, di una spaccatura antropologica ed esistenziale non colmata e non sufficientemente compresa.

L’opera cinematografica di Foy viene ambientata nella città di Calgary, Alberta. Una realtà urbana che il regista conosce bene poiché una buona parte della sua adolescenza venne consumata esattamente lì dove i protagonisti del film si perdono fino a ritrovarsi in una dimensione ultraterrena.
The Maiden racconta esattamente la normale adolescenza di tre ragazzi che trascorrono le loro giornate cercando di trovare una luce di salvezza capace di ridare senso a quella realtà che trovano assurda. Allora ci si aggrappa alle piccole cose, come lo skateboarding o i graffiti fino alla più semplice amicizia che segna la storia di Whitney. Un’adolescenza fragile vissuta con la superficialità della giovinezza.

Crescere però non è facile. Ci si scontra con turbolenze interiori che possono destabilizzare talmente tanto da far entrare in collisioni questi due mondi, quello interno e quello esterno. Così la narrazione adolescenziale si intreccia con un lutto biologico e spirituale; un sentirsi sempre più soli fino a rifugiarsi nella natura, dalla quale siamo tutti esiliati.

Colton e Kyle sono due amici che passano le giornate con lo skateboard in una mano e la bomboletta spray nell’altra, condividendo una connessione molto forte. Un evento tragico cambierà completamente le loro vite. Whitney, invece, non riconosce più la sua amica del cuore e questo desterà in lei un cambiamento altrettanto drammatico. A questo punto il film subisce una metamorfosi per quanto concerne l’atmosfera e dal terreno passiamo all’ultraterreno. L’alternarsi di realtà e irrealtà crea una cornice onirica che ha la capacità di ridarci quella sensazione di magia che accompagna la narrazione di ogni singola adolescenza.

La macchina da presa si mostra calma e riflessiva. Le riprese statiche del cielo, dei tramonti e della natura circostante ricordano le tavole piene di nostalgia del maestro Kazuo Kamimura.
Gray ci vuole dare il tempo di assaporare la giovinezza, tentando una rappresentazione non convenzionale di questa fase della vita. Un’opera fortemente estetica che limita molto i dialoghi, come se le parole fossero incapaci di raccontare e rappresentare un dolore, un’amicizia, una ricerca di sé stessi.

Unico filo conduttore tra il mondo reale e l’ultraterreno è la musica, capace di mettere in comunicazione questi due mondi. Perché come scriveva E.M. Cioran “Se la musica ci travolge col suo fascino è perché fluttua oltre la bassezza di ogni controllo. Sfugge all’essere come al non essere. È l’unica arte che abbia a che fare non con l’essere, ma con il nostro divenire nell’irreale”.

Simone Libutti