11/01/2021

Lorenzo Vigas: "Venezia è come tornare a casa, qui sono nato come cineasta" – Intervista con il regista de "La Caja"

"La Caja" è il terzo film del regista Lorenzo Vigas sul tema della figura paterna in America Latina, sulla sua assenza e ricerca ed è stato selezionato per partecipare nella selezione ufficiale della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia nella sua edizione numero 78. L'opera è stata realizzata negli scenari dello Stato del Chihuahua in Messico e presenta un cast d'eccezione.

La sceneggiatura è nata a partire di una notizia che il cineasta ha visto in televisione e con la quale sono sorti diversi interrogativi intorno alla consegna di una scatola con dei resti umani e sulle persone coinvolte che ricevono i loro parenti estinti tra le mani.

Al Lido di Venezia, dopo le prime per la stampa e il pubblico, c'era il regista venezuelano e gli attori protagonisti che si sono resi disponibili per parlare dell'esperienza che è stata fare "La Caja". Con il loro racconto sono emerse le sfumature, le emozioni e il dietro le quinte di quest'opera che completa la trilogia composta da "Los elefantes nunca olvidan", cortometraggio del 2004 e "Desde allá", lungometraggio che diede il riconoscimento internazionale a Vigas nel 2015 e con il quale ottenne il Leone d'Oro a Venezia.

In una giornata di sole di settembre, nello spazio all'aperto dedicato alla stampa, questa è l’intervista con Lorenzo Vigas.

BER.- Ci siamo già abituati a vederla a Venezia come regista, come giuria. Com'è questo ritorno? Che emozione è questa nuova partecipazione al festival?

LV.- Mi sento come a casa perché qui sono nato come cineasta. Qui è stato l'inizio di tutto. Sono diventato qualcuno quando ho vinto il Leone d'Oro, quindi è tornare come a casa. Sono molto grato e credo che questa sia la giusta continuazione per presentare il prossimo film qui. Sono molto contento.

BER.- Come è stato girare negli spazi aperti di Chihuahua con il tempo e anche con il clima sociale e politico del territorio?

LV.- Le due sfide più dure della produzione sono state, in primo luogo, girare a Chihuahua con quel caldo, e in secondo luogo, considerare che è tra gli Stati più pericolosi della Repubblica messicana. Ci sono diversi gruppi che controllano Chihuahua, e dunque, a volte, ci trovavamo in un paesino che stava controllato da un gruppo, e a 200 metri, più in là, in un altro paesino, c'era un altro gruppo. Era importante negoziare e avvisarli che stavamo girando un film che non aveva a che fare con loro o che in alcun modo, non li avrebbe danneggiati, così da poter continuare con le riprese. Il film è stato girato in 9 o 10 località nell'arco di diverse settimane, abbiamo cercato di ritrarre quei paesaggi e la storia che stavano attraversando i personaggi. Il cittadino comune è quello che ci ha aiutato; ha contato molto l'entusiasmo della gente di Chihuahua.
L'altra grossa difficoltà è stata quella di trovare una maquiladora vera per poter far entrare la macchina da ripresa. L'abbiamo trovata solo quando si sono interrotti i lavori in una di esse e solo così, ci è stato permesso di entrare e filmare.

BER.- "La Caja" non solo tratta della paternità, espone i problemi legati alle maquiladoras. Che può dire al riguardo?

LV.- Le donne spariscono nel Nord del Messico, ma spariscono per molte ragioni, non per una sola. Ci sono molte ipotesi. Questa è finzione, alla fine, la ragazza sparisce dalla maquiladora, ma nella realtà, non credo che le donne spariscano solo dalle maquiladoras, questo succede in questa storia specifica ed è stata importante per il film. Il bambino trova l'identità della ragazza che sparisce, è lui che cerca la sua identità, ed è lì che si mettono in connessione le due identità; questo è stato importante.

Siamo andati dentro le maquiladoras e abbiamo visto che in alcune, c'è gente felice e in buone condizioni, e in altre invece, abbiamo trovato situazioni estreme. Donne che crescono i loro bambini all'interno delle maquiladoras. C'è stato un caso a Città del Messico in cui una persona è fuggita e si è saputo che aveva vissuto e lavorato in una maquiladora per 20 anni, ma è un caso davvero estremo.
 
BER.- Il sostegno tra registi latinoamericani. Prima il trio di amici Cuarón, Del Toro e González Iñárritu. Ora Lei collabora con Michel Franco, partecipando alla produzione dei film. Che esperienza è questa?

LV.- Penso che sia il modo di sostenerci a vicenda. È una strada molto solitaria, quindi è bello avere un collega, alla fine prendo le mie decisioni. Quando cerco di dire qualcosa a Michel, lui può rispondermi "no, no, è una cattiva idea", e quando capita che lui mi racconta qualcosa, il più delle volte gli dico "lascia perdere, dimenticalo". Però penso che sia importante avere una comunicazione con qualcuno. L'onestà è molto importante. Questa è una comunione tra registi. Io, Michel e anche Amat Escalante siamo molto uniti, qualche volta leggiamo un copione assieme. Gabriel Ripstein è anche uno stretto collaboratore, dunque la comunità è importante.

BER.- Come artista, come ha vissuto questo periodo di pandemia?

LV.- Mi ha dato l'opportunità di montare il film per lungo tempo, è andata bene per il film. Prima della pandemia, stavo montando e mi sono detto, "ci vorrà un altro anno". Alla fine, il modo in cui il film è strutturato e montato è dovuto al tempo che ho avuto a disposizione per farlo.

BER.- Torno anni indietro. Che significò e rappresentò il Leone d'Oro per Lei? È stato il primo latino-americano a vincere questo premio.

LV.- La verità è che mi ha dato l'opportunità di fare altri film, soprattutto quest'opera. Però anche mi ha messo molta pressione, sono stato sotto pressione.

BER.- Che segue? Che progetti ci sono per il futuro?

LV.- Farò un film sulle donne, sulla femminilità. Sì, proprio così, davvero (sorride).

Blanca Estela Rodríguez