11/10/2021

The card counter di Paul Schrader

Ci sono film che ti fanno uscire dalla sala con l’impressione di essere più intelligente di quando ci sei entrato. E’ il caso della conferma Paul Schrader, che mi ha incantato ancora, dopo aver reso già la sua presenza preziosa quale co-autore di tante magnifiche storie Scorsesiane, impregnate di dilemmi e di umanità messe a dura prova da eventi che le riportano a fare i conti con un passato ingombrante per l’anima, con colpe che sono convinte di non poter espiare, come dice il protagonista ad un certo punto: “non c’è differenza tra il perdonare qualcuno o perdonare a se stessi, e non dovrebbe essere necessario distinguerle come sempre facciamo”.

Sin dalle prime immagini quest’opera straordinaria, The card counter (tradotta malamente all’italiano Il collezionista di carte) si fa leggere in ogni più piccolo dettaglio dell’inquadratura, in un susseguirsi di simbologie che però non hanno il sapore del didascalismo, bensì del voler accompagnare lo spettatore all’ interno del racconto, scena dopo scena, con la lentezza della messa in scena che diventa quasi ipnotica, distante anni luce dalla frenesia a cui lo spettatore è oggi abituato, ma proprio per questo ancor più ricco di tensione emotiva. Una ricerca per immagini di leggere l’anima del protagonista, così come dei personaggi di contorno, in un parallelismo tra vita e gioco d’azzardo; come tra avversari ad un tavolo verde, che osservano le reciproche, impercettibili variazioni di espressione nei volti, anche solo quando reagiscono a una frase dell’interlocutore, alterando la loro espressione nel giro di pochi secondi.

Lavoro certosino dell’attore su se stesso, ma anche del regista nell’affiancare gli eventi, o dello scenografo nel creare l’ambiente asettico di stanze d’albergo che diventano celle di tortura. Un personaggio, quello reso magistralmente dall’attore Oscar Isaac, che occupa gli spazi delle sue giornate trascinando con sè il peso di un passato troppo vergognoso per poter essere perdonato, se non con gesti estremi o maturati a caro prezzo, e velati dalla cura nell’aspetto e la metodicità dei gesti.

Non si può non ripensare a Taxi Driver, capolavoro di sceneggiatura del regista negli anni ’70, ma soprattutto al suo più celebre film da regista, American Gigolo, con il finale ripreso quasi alla lettera: quel tocco umano e d’amore salvifico che però rimane interrotto da un vetro di separazione. C’è un contatto, c’è un residuo di umanità e di riscatto, ma forse è solo un’illusione, la necessità disperata di convincere se stessi. Volti e caratterizzazioni indimenticabili come nel più classico cinema anni ’70 nei suoi momenti d’oro, ma sottovoce, con colonna sonora pressoché inesistente ed immagini limpide ed essenziali, a partire dall’acconciatura e la gestualità di Isaac, obbligate ad apparire ordinate, con l’ausilio di una sceneggiatura da manuale che regala dialoghi in perfetto equilibrio tra profondità e sano godibile divertimento.

Silvia Anastasio