02/10/2017

Samui Song di Pen-Ek Ratanaruang

Esponente di punta della new wave tailandese, Pen-Ek Ratanaruang è tornato a sconvolgere Venezia con il suo Mai Mee Samui Samrab Ter – titolo internazionale Samui Song - , thriller poliedrico e metacinematografico  dal sapore vagamente hitchcockiano.

Viyada – Chermarn Boonyasak – è un’acclamata attrice di soap opera sposata al farang Jérome – Stéphane Sednaoui – , membro di una setta religiosa che fa capo a un losco santone. Per inseguire liberamente il suo sogno nel mondo dello spettacolo, Viyada assolda un sicario onde liberarsi del marito una volta per tutte ma le cose non andranno come previsto, costringendo mandante ed esecutore a lottare per la propria sopravvivenza.

Ratanaruang offre in primo luogo un affresco satirico e irriverente del suo Paese, ridicolizzando l’impotenza – sessuale e, per traslato, intellettuale – degli occidentali, alla ricerca di non si sa quale spiritualità e perciò alla mercé dei peggiori millantatori; non da meno sono però gli autoctoni, asserviti ai piaceri terreni e al lusso.

In questo quadro si inserisce una crime story apparentemente semplice: una moglie insoddisfatta decide di togliere di mezzo il coniuge. Eppure non solo l’atto criminoso in sé, ma pure i personaggi altro non sono che una parodia di se stessi: così la storia deraglia e lo spettatore è portato a riconsiderare fino all’ultimo quello che sta accadendo sullo schermo, insidiato dal sospetto che quanto sta vedendo altro non sia che un film nel film.

Facendo ricorso anche a una buona dose di violenza – talvolta gratuita – , Samui Song si trasforma così in un’angosciante caccia all’uomo condita da elementi paradossali culminanti nel finale, che lascia trasparire come Ratanaruang, pur riuscendo nell’intento di muovere oltre le convenzioni, abbia preferito creare scandalo piuttosto che far riflettere, seminando numerosi spunti poi non coltivati.

Giovanni Stigliano Messuti