15/11/2016

Voyage of Time: Life’s Journey  di Terrence Malick

La celebrazione del creato in un caleidoscopio di immagini spettacolari; l’universo che si svela davanti ai nostri occhi dal big bang alla nascita delle stelle e dei pianeti; un viaggio esplorativo che abbraccia passato e presente, dalle origini della terra alle megalopoli moderne; l’immensità dello spazio profondo e l’infinitamente piccolo delle cellule umane; la straordinaria diversità delle forme con cui la vita si manifesta, da quelle compatte a quelle più liquide, dalle grezze alle morbide; la semplicità dell’uomo primordiale, che si meraviglia specchiandosi per la prima volta in un corso d’acqua, e la complessità dell’uomo contemporaneo, capace di profonde riflessioni metafisiche e autore di efferate atrocità. Tutto questo e molto di più è Voyage of Time: Life’s Journey, una sinfonia visiva potente che glorifica l’energia instancabile della natura, madre generosa e senza pietà, che tutto crea e tutto trasforma in un ciclo continuo, resa ancora più suggestiva da una colonna sonora solenne (Bach, Beethoven, Haydn e Arvo Paert) e dalla mancanza di dialoghi. A scandire il susseguirsi delle immagini solo la voce narrante di Cate Blanchett, alter ego del regista, che si interroga sul senso della vita.
Voyage of Time: Life’s Journey è un film documentario scritto e diretto da Terrence Malick (Ottawa, Illinois, 30 novembre 1943), presentato in concorso alla 73ª Mostra di Venezia. Si tratta dell’ottava pellicola del cineasta statunitense, riconosciuto come un maestro sia dal pubblico che dalla critica; una figura decisamente atipica nel panorama americano vista la scarna filmografia e i contenuti filosofici e spirituali della sua opera. Laureatosi in filosofia ad Harvard nel 1965, Malick approda al cinema dopo aver esercitato i lavori più vari: da operaio di pozzi di petrolio a professore di filosofia, da ornitologo a giornalista free lance per testate come «Life», «Newsweek» e «The New Yorker». Il suo debutto come sceneggiatore, regista e produttore è con il film indipendente La rabbia giovane (Badlands, 1973), con Martin Sheen e Sissy Spacek nei panni di una giovane coppia che fugge dalle forze dell’ordine nell’America degli anni ’50. La pellicola, divenuta subito un classico della “New Hollywood”, mostra già quelli che saranno gli elementi distintivi del cinema di Malick: l’uso di una voce introspettiva fuori campo e di musiche suggestive che creano una sorta di distacco dagli eventi, mentre la macchina da presa alterna splendide immagini di grande fascinazione nei confronti della natura alla cruda rappresentazione della violenza dei comportamenti umani. Il suo secondo film è I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), che tratta di un triangolo amoroso ambientato nella campagna rurale texana agli inizi del XX secolo. Anche questo lavoro, come il primo, ottiene il plauso del pubblico e della critica e riconoscimenti in tutto il mondo, tra cui l'Oscar alla migliore fotografia e il premio per il Miglior Regista al Festival di Cannes 1979. Si delinea già il mito di Malick, famoso per il suo perfezionismo maniacale (insieme a Bill Weber, impiegherà ben due anni per montare la pellicola) e la sua avversione nei confronti del successo che lo porta, dopo i primi due film, a scomparire dalla scena e rifugiarsi in Europa per quasi due decenni.
Il cineasta ritorna sul set con un film di guerra La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998), che narra le vicende di una compagnia di soldati americani impegnati nella conquista dell’isola di Guadalcanal nel 1942, durante la seconda guerra mondiale, con cui vince l'Orso d'Oro al Festival di Berlino. Alla fine del 2005 esce il suo quarto film da regista The New World – Il nuovo mondo (The New World) incentrato sul leggendario amore tra la principessa indiana Pocahontas e John Smith, un soldato dell’esercito inglese nell’America del 1600, quando i coloni d’Europa e i nativi entrarono in conflitto. Con il successivo The Tree of Life (2008) Malick si aggiudica la Palma d’oro a Cannes nel maggio 2011, dopo più di due anni di attesa. Il film narra l’evoluzione di Jack O'Brien, un ragazzo del Texas, e mette a confronto la vita di un microcosmo, rappresentato da una famiglia americana negli anni ’50, con quella del macrocosmo, ossia l’universo dopo il big bang.

Nel 2012 presenta a Venezia To the Wonder, il suo primo film ambientato interamente nella contemporaneità, che racconta una storia di amore e tradimento, a cui segue nel 2015 The Knight of Cups, inedito in Italia, storia di uno sceneggiatore in crisi che cerca l’interpretazione della realtà nei tarocchi. 
Co-prodotto da National Geographic, Voyage of the time è il primo film-documentario di Malick. Ritornano tutti i temi che più gli stanno a cuore: il senso della vita, il ruolo dell’uomo nel mondo, la bellezza imperturbabile della natura in contrasto con gli affanni degli esseri umani. L’eterno, il durevole a confronto con l’effimero, che il tempo cancella e che la natura trasforma. Non a caso l’alta definizione delle strabilianti immagini dell’universo – realizzate da Dan Glass, un maestro degli effetti speciali (Mission Impossible, Matrix Reloaded, Batman Begins) – è in netto contrasto con le riprese sgranate, realizzate in video, di uomini e donne che in varie parti del mondo si relazionano a Madre Natura. Malick sembra voler completare qui la sezione abbozzata in The Tree of Life, quella breve storia della Terra che tanto aveva spiazzato gli spettatori perché andava a incastrarsi senza un apparente motivo nel percorso esistenziale del protagonista Jack O’Brien. In realtà esisteva già un progetto intitolato Q (Qasida), risalente alla fine degli anni ’70, pensato per la Paramount, teso a rappresentare le origini e l’evoluzione dell’universo in una forma accessibile al grande pubblico. Presentato a Venezia nella sua versione integrale di 90 minuti, Voyage of Time verrà distribuito negli Stati Uniti anche in una versione della durata di 40 minuti dal titolo Voyage of Time – The IMAX Experience, narrata dal co-produttore Brad Pitt, destinata alle sale IMAX dai grandi schermi ad alta definizione. A differenza di The Tree of Life, dove la storia dell’universo creava un contraltare straniante alla vicenda personale del protagonista, Voyage of Time si presenta come un poema visivo di notevole impatto scandito da evocazioni rivolte alla Natura, di cui si sottolinea la santità, la saggezza, la maternità pervasiva.  Tuttavia la sfida di proporre allo spettatore una storiadell’evoluzione in 90 minuti haun risultato deludente sul piano strettamente scientifico e stucchevole su quello poetico. Si ha un’impressione di déjà vu per il richiamo a The Tree of Life e la noia prende il sopravvento, con le solite immagini presentate spesso senza un apparente filo logico e cronologico e le solite litanie di sottofondo. Così la grandiosità della fotografia suggestiona ma non incanta, fino a fallire nella rappresentazione piuttosto scadente dei dinosauri (realizzati meglio nei video dei musei di storia naturale) o a sfiorare addirittura il ridicolo alla comparsa dei primi uomini, con improbabili fisici palestrati e perfettamente depilati. Dispiace che Malick, che in passato ci ha incantato e commosso con il suo stile unico, frutto dei suoi studi filosofici, degli influssi letterari di Walt Whitman, oltre alla passione per la pittura di Edward Hopper, man mano che prosegue nel suo lavoro vada sempre più verso un integralismo visivo difficile da seguire anche per il pubblico che lo ama. Se il suo intento vuol essere quello di ribellarsi contro la deriva hollywoodiana che produce quasi esclusivamente reboot di supereroi, lo sta perseguendo con una attività anche troppo frenetica e sostanzialmente inefficace. Dopo anni di silenzio tra un film e l’altro, adesso sembra inarrestabile, al punto di girare più opere contemporaneamente. Appena presentato a Venezia Voyage of Time, è prevista l’uscita già nel 2016 di Weightless, storia di un triangolo amoroso nel contesto della scena musical di Austin, Texas, ed è in lavorazione Redegund che si ispira alla storia vera di un nazista dissidente, proclamato beato nel 2011 da Papa Benedetto XVI, e di cui alcune scene sono state girate lo scorso agosto a Cima Sappada, remoto borgo delle dolomiti bellunesi. Non resta che sperare che con queste due ultime pellicole Malick ritorni al suo stile inconfondibile, poetico e introspettivo, che percorre la Storia e le storie dei singoli che vivono cercando un senso oltre quella “sottile linea” che li separa dall’infinito.

Lucia Giovannini